Nel Dizionario Amoroso Appassionato di Napoli, Le Dictionnaire amoureux de Naples, scritto dal francese Jean-Noël Schifano, già direttore dell’ Institut Français Napoli, il babà ha un pregio unico: «una pasta soffice e porosa che ricorda proprio la pietra tufacea con cui è stata costruita Napoli dai Greci in poi. Merito delle immense cave dei Campi Flegrei disseminate sul territorio vulcanico, fatte di tufo, una roccia derivante dalla gigantesca eruzione che ha plasmato il golfo di Napoli».
Il principe della pasticceria napoletana è un dolce preparato anche in Francia, dove però «non possiede la stessa consistenza del cugino napoletano, come constatai di persona, assaggiandone uno a Nancy a suo tempo», raccontò Jean Noël Schifano. «Era pesante, non leggero come quello di Napoli».
Esso è frutto di una magica preparazione sospesa tra matematica degli ingredienti, chimica dei sapori e la stessa porosità della pietra gialla di Napoli: «Leggero e dolce come una piuma, accarezzante come un raggio di sole sul fondo di un vicolo, fondente come un uovo in camicia sotto la lingua o come la crema delle zeppole nel giorno di San Giuseppe. E’ il colore che tutti gli artisti del mondo chiamano semplicemente il Napoli quando è richiesto al loro fornitore di colori, un giallo universale e inconfondibile».
LE ORIGINI
Il nostro tipico dolce, vanto della tradizione partenopea, è la derivazione di un dolce a lievitazione naturale originario della Polonia (babkaponczowa). Utilizzato dai cuochi francesi, assunse il nome di baba per poi vedere trasformato il proprio nome in “babbà” dai pasticceri napoletani.
L’invenzione del babà si fa risalire al re polacco Stanislao Leszczyński, suocero di Luigi XV di Francia e suo alleato nel concerto europeo. Leszczyński era uso dilettarsi nell’invenzione culinaria ma, essendo privo di denti, era impossibilitato a mangiare dolci quali il gugelhupf, originario dell’Alsazia, che egli trovava troppo asciutto. Decise perciò di ammorbidirlo nel Tokaj e nello sciroppo.
La tipica forma a fungo la si deve al celebre pasticciere Nicolas Stohrer, giunto a Parigi con Maria Leszczyńska, figlia del sovrano polacco. Ancora oggi, nella capitale francese, la maison propone dolci simili. Un’altra versione delle origini faceva ricordare al re la gonna a campana (tonde) delle donne anziane che si chiamano babka.
Un’altra storia racconta che il re, dal pessimo carattere, avesse scagliato il dolce contro una credenza, fracassando una bottiglia di rum. Questa andò a inzuppare il dolce e Stanislao allora lo assaggiò, trovandolo ottimo.
Nel XIX secolo il maestro Brillat-Savarin inventò un liquore che ben si accompagnava alle macedonie di frutta. La pasticceria francese dei fratelli Julien ebbe l’idea di chiudere la macedonia in un babà opportunamente spennellato di confettura di albicocche: nacque così il Babà Savarin.
L’ARRIVO A NAPOLI
Le prime fonti partenopee sul dolce risalgono al 1836 quando il cuoco Angeletti scrisse un manuale culinario in cui è descritta la ricetta con uvetta e zafferano, ingredienti poi persi nel corso degli anni con la volgarizzazione delle pasticcerie commerciali.
Marisa Laurito ha dedicato al babà una canzone che faceva così: “E se la vita amara si fa, si addolcisce con un babà! Il babà è una cosa seria, col babà nun se pazzea, è una cura che fa bene, ‘o babà non può ingannare! Il babà è come il ciucciotto, la coperta di Linus, se cercate un antistress”.
Ma se il babà fosse il protagonista di un film, il titolo sarebbe senz’altro Un figlio polacco a Napoli.
I figli però sono di chi li cresce, non di chi li fa, si è soliti dire. E un maestro pasticciere come Sabatino Sirica tempo fa lo sostenne anche per il babà: in fondo sarà pure nato in Polonia e Francia, ma in Italia e a Napoli è stato cresciuto con maestria e amore. Si è fatto omm qui, è diventato uomo da noi.
Napoletano doc, il babà è figlio a noi, è nostro, senza alcun dubbio e noi siamo d’accordo con questa dichiarazione di genitorialità.
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